Labirinti

Labirinto è una parola di origine greca dalle molteplici etimologie.
Secondo alcuni, deriverebbe da labyrinthos (da una radice laaf che significa “pietra”), secondo altri da làbiros (che significa “cavità), per altri da làbirion (che significa “cunicolo”, per altri, ancora, da leberhìs (che significa “lepre che scava cunicoli”), per altri, infine, sarebbe collegata al lidio labrys (che è l’ascia bipenne) accompagnato dal suffisso inthos che significherebbe “luogo”. Quest’ultima derivazione etimologica, accreditata dal (discusso) archeologo Sir Arthur J.Evans, scopritore della reggia di Cnosso, associa il simbolo regale cretese dell’ascia bipenne al palazzo di Minosse e al famoso racconto greco da cui trarrà origine la narrazione, mitica, del “labirinto”.
Vale la pena ricordarlo, anche se in alcuni casi, come nel labirinto vichingo di Fröjel, in Svezia o in quello di Glastonbury, al suo centro non si trova un mostro da combattere e da vincere, come nel labirinto cretese, ma una dea che, nel caso di Fröjel, è Freja, la dea norrena della seduzione e della morte.
L’analogo si può affermare nel caso del labirinto tridimensionale di Glastonbury, dove neppure esiste un centro.
La narrazione sul labirinto inizia, comunque, dalle vicende del grande architetto ateniese
Dedalo, incaricato da Minosse, re di Creta, di costruirgli un meraviglioso palazzo e un labirinto.
In esso, Minosse avrebbe rinchiuso il Minotauro, frutto dell’accoppiamento di sua moglie Pasife che, sotto la specie di una giovenca di legno, era stata posseduta da un toro sacro a Posidone.
Portato a termine il labirinto, Minosse vi relegò l’ingombrante Minotauro, essere mostruoso e feroce dal corpo umano e dalla testa taurina, che si cibava di carne umana. Il Minotauro sarà, poi, ucciso dall’eroico Teseo, grazie allo stratagemma di una cretese di nome Arianna che, innamorata di lui, gli consegnerà un gomitolo di lana, il famoso “filo d’Arianna” grazie al quale, fissandolo all’entrata e srotolandolo.
Teseo riuscirà, dopo aver ucciso il Minotauro, a ritrovare la via d’uscita: altrimenti impossibile.
L’immagine del labirinto, cretese associato alla lotta per vincere il Minotauro, diventerà un vero e proprio modello a cui ispirarsi per la costruzione dei labirinti: indipendentemente dalle epoche storiche e dai contesti culturali e religiosi.
Così, nel primo secolo dell’era cristiana, il labirinto musivo e pavimentale di Conimbriga, in Portogallo, riproporrà il modello di Cnosso, con al centro l’immagine della testa del Minotauro. Minotauro che ciascuno, camminandovi sopra poteva, simbolicamente, vincere, riproducendo in sé l’eroico Teseo.
L’analogo è, per altro, è riscontrabile, seppur in chiave pagana, sia nel coevo labirinto della “Casa del Labirinto” di Pompei che nel più tardo labirinto (IV sec. d.C.) conservato al Kunsthistorisches Museum di Vienna, dove l’eroe nudo che combatte il mostruoso Minotauro simboleggia l’eterno conflitto del bene contro il male, presente in ogni saga e in ogni narrazione mitica.
Di qui la conseguente (e diffusa) convinzione che il labirinto sia un luogo tenebroso, pericoloso e inaccessibile costituito da sofisticate strutture architettoniche, sia di pietra che arboree, sia a livello del terreno che edificate, sia fatte d’intricati meandri che di vicoli ciechi, sia di falsi percorsi che di strade ingannevoli dove si celano mostri, enormi tesori, inenarrabili segreti od oggetti di particolare valore simbolico.
Un luogo, insomma, in cui l’accesso è facile e invitante, ma l’uscita è ardua se non impossibile.
Come una sorta d’isola nel flusso del tempo al pari di quello, antico, dell’isola di Lemno, di cui racconta Plinio il Vecchio nella sua Historia Naturalis, il labirinto di forma esagonale, rettangolare, spiraliforme e qualche volta trapezoidale (come quello, notissimo, di Hampton Court in Gran Bretagna) ma, più spesso, quadrato (fatto di quadrati) o rotondo (e in molti casi rotondo inscritto in un quadrato o viceversa) si pone come una sorta di mandala.
È una sorta di ‘psicocosmogramma’ in cui gli opposti cielo e terra, bene e male, luce e tenebre si congiungono in un rapporto di totalità.
E proprio in questo consiste la sua simbolica difficoltà di comprensione e, di conseguenza, di risoluzione: o, meglio, di uscita.
Uscita per cui è necessaria una lotta, in vista di una difficile vittoria.
D’altronde, nulla di più arduo esiste al mondo che pensare (e comportarsi) in chiave di unione degli opposti, prendendo ad esempio il labirinto della Cattedrale di Notre-Dame di Amiens (1288), di forma esagonale e fatto di marmo bianco e nero, che si doveva percorrere per giungere al centro (oggi distrutto), caratterizzato dalla croce al posto di Teseo e del Minotauro.
La difficoltà consiste nel fatto che, solitamente, viene seguita la via più usuale e ovvia, ma contraria allo spirito del labirinto: ossia la via del mantenimento della separazione degli opposti.
Così, comunemente, si è soliti scegliere, senza riflettere, una strada, solo quella e ci si dimentica che ne esiste, quantomeno, sempre un’altra, di cui bisogna tener conto. Solitamente si sceglie la luce, il giorno, il bene e il paradiso non tenendo conto che esiste, pure, l’oscurità, la notte, il male e l’inferno.
Si può, allora, comprendere, la saggia iscrizione collocata nel labirinto della secentesca Villa Barbarigo che recita ”Qui ci sono l’inferno e il paradiso”, forse per indicare che, nel labirinto, inferno e paradiso coesistono.
Sono il verso e il retro di una unica medaglia, per cui quando si sceglie l’uno non tenendo conto dell’altro, si incontrano vie apparentemente facili ma, quasi sempre, ingannevoli.
In questo procedere unidirezionale, talora, si ritiene di aver trovato l’uscita la soluzione del labirinto e/o della vita ma poi ci si accorge, tristemente, di essere ritornati al punto di partenza.
Punto di partenza che non coincide con l’uscita.
In tal caso, la speranza di un rapido e veloce allontanamento dal labirinto si tramuta nel doloroso pensiero di non poter fare altro che un vano, incessante e inutile cercare.
Un cercare in cui il corpo si sfianca e la mente si perde in corridoi tortuosi, pieni di trappole che ricordano il processo di Kafka e che conducono, inevitabilmente, al labirinto cerebrale di Borges de Il giardino dei sentieri che si biforcano”.
Il seguito, inevitabile e in crescendo, è la depressione, la paura, l’ansia, la disperazione o, peggio ancora, quell’ultimo e catatonico “lasciar fare” che contamina, appiattendola, l’esistenza e la rende schiava “di quel non poter essere che così” che distrugge l’animo umano.
Come accade allo sciagurato protagonista de ’La morte di Ivan Il’ic’ di Lev Nikolaevic Tolstoj e che è l’ostacolo maggiore all’uscita dalle tortuosità della vita e dei labirinti.
Il labirinto acquisisce, perciò, un aspetto inquietante.
Appare come una sorta di serpente in agguato, pronto a stritolarti con le sue spire: sette come, spesso, sono i meandri spiraliformi dei labirinti.
Ma può assumere, anche, un carattere tombale: come è il caso del labirinto che a Meride, secondo Manetone e Erodoto, era tutt’uno con il sepolcreto regale di Amenemhet III o come quello del sepolcro dell’etrusco Porsenna, anch’esso citato da Plinio il Vecchio.
Il labirinto appare, di conseguenza, come il simbolo di una esistenza che può diventa vana, inutile, morta e illusoria, al pari dei labirinti di specchi dei Luna Park, se non si riesce a trovare la giusta comprensione: in chiave di unità degli opposti.
E se non si ha il coraggio (o l’incoscienza) di perdersi per potersi ritrovare. Un perdersi e un ritrovarsi che si può paragonare a un movimento di diastole e di sistole, dall’entrata al centro e viceversa, che è analogo a quello del cuore e/o a quello dell’amore.
Amore che è il motivo ispiratore del settecentesco labirinto di Villa Pisani vicino a Venezia e che, come questo labirinto, è complicato e intrigante, pericoloso e fascinoso. Fascinoso e intrigante perché nell’amore ci si può, volutamente, perdere, in una sorta di sublime catarsi: alla maniera romantica ai cui stilemi il labirinto di Horta-Guinardo’, a Barcellona, si ispira.
Per tale motivo, il labirinto si presenta con il carattere dell’ambiguità: la stessa dolce ambiguità che contraddistingue tanto l’amore quanto l’esistere. Entrambi appaiono come un viaggio (apparentemente) senza fine nell’indecifrabile e nell’ignoto. Un indecifrabile e un ignoto che si presentano, tutto sommato, straordinariamente entusiasmanti, facili e quasi scontati – come, appunto, lo sono i labirinti romantici ricchi di statue, fontane, stagni, ponticelli e canali ma, in realtà, non lo sono assolutamente: come si può sperimentare nel complicatissimo labirinto inglese di Longleat.
Il labirinto si presenta come il crisma della felicità che sembra a portata di mano e raggiungibile, ma che per l’uomo comune si rivela, poi, drammaticamente sfuggente e dispersa in mille rivoli: come le continue biforcazioni e le improvvise giravolte dei percorsi labirintici cari alla ingannevole sensibilità barocca del già citato labirinto della Villa Barbarigo.
Tutto questo induce a pensare che il labirinto, in tutte le molteplici forme, positive e negative, in cui è stato pensato, costruito e vissuto possegga un valore aggiunto di ordine spirituale.
Ossia, che lo si possa considerare come una vera e propria prova iniziatica, da superarsi per pervenire a un superiore livello di consapevolezza, di conoscenza, di saggezza, di misticismo o di santità.
Questo induce a considerarlo non soltanto l’espressione di una coincidenza di opposti, come già si rilevava all’inizio, ma anche come qualcosa che si può, naturalmente e simbolicamente, associare alla caverna.
Anche se non si conoscono labirinti sotterranei, sono impropriamente chiamati labirinti sotterranei insiemi catacombali, strutture ecclesiali sotterranee (come il Monastero delle Grotte di Kiev), cavità naturali tra loro collegate, gallerie per acquedotti, percorsi minerari o reti di cunicoli scavati a scopi difensivi o per motivi “d’intelligence”, il labirinto rimanda, nell’immaginario collettivo, a qualcosa di oscuro, di profondo, di angusto, di petroso: come, appunto, è la caverna.
È il motivo per cui il labirinto si presenta e viene concepito (visivamente e psicologicamente) con gli stessi caratteri simbolici della caverna.
Coincide, insomma, con il luogo dove si può morire oppure dove si può rinascere a nuova vita: ritemprati dall’esperienza mortifera dell’oscurità e del pericolo.
E in cui non ci si può avventurare se non dopo aver superato un Guardiano della Soglia e dopo essere stati resi edotti da un Maestro sul come superare gli ostacoli che si pareranno dinnanzi all’avventuroso esploratore dell’ignoto.
Come Teseo dopo la vittoria sul Minotauro, chi esce indenne dalle “spire” del labirinto acquisisce il carattere eroico: è un eroe o un “atleta dello spirito” come venivano chiamati i Padri della Chiesa che vivevano agli albori della Cristianità nel deserto.
E il richiamo al deserto non è casuale perché, come ebbe modo di rispondere Borges a Franco Maria Ricci, il più grande labirinto esistente è proprio il deserto: dove tutto non ha né fine né principio, dove tutto è uguale a se stesso, dove ovunque vai è sempre simile al luogo dove si è iniziata la via.
Eppure, proprio dall’esperienza, pellegrina dei Padri della Chiesa, ha preso inizio quel cammino del “popolo di Dio” che lo ha condotto, sempre con il nome di labirinto a quelli medioevali, tracciati (per lo più con mosaici) sul pavimento di chiese romaniche (come, ad esempio, San Michele di Pavia) e di cattedrali gotiche: come il celebre labirinto di Chartres, che sarà il modello per tutti i futuri labirinti ecclesiali (trovate un articolo, pubblicato su questo blog qui).
Rappresentavano il cammino simbolico che il credente doveva percorrere, in piedi o in ginocchio, pregando in una sorta di “pellegrinaggio virtuale” per raggiungerne il centro. Centro che, a sua volta, era l’immagine della Gerusalemme Celeste, considerata l’omphalos mundi: l’ombelico del mondo e punto di collegamento tra il cielo e la Terra.
Era il viaggio spirituale e penitenziale, sostitutivo di quel ben più impegnativo e pericoloso che si sarebbe dovuto fare in Terra Santa, i cui meandri, gli ostacoli, i vicoli ciechi simboleggiavano le tentazioni in cui il fedele poteva incorrere e che doveva superare se voleva ottenere la salvezza.
Era un eroico percorso di purificazione il cui centro era rappresentato sempre dall’uccisione simbolica del mostro rappresentato dalla propria negatività e la cui catarsi era l’identificazione con il Cristo, novello Teseo.
La medesima funzione catartica, ma a carattere apotropaico e magico, il labirinto l’avrà in Scandinavia a Holmudden (ma ve ne sono tantissimi), negli antichissimi Trojabords (labirinti) dell’isola di Gotland o in quello di Lindbacke in Svezia che probabilmente risale all’età del bronzo.
Così come al 20.000 a.C. risale il labirinto spiraliforme di Usgalimal di Goa in India.
In tutti questi labirinti, formati, per lo più, da pietre, l’uso era quello di percorrerli prima di salpare per propiziarsi il mare e i venti favorevoli oppure per imprigionare gli spiriti maligni, impedendone l’azione nefasta e malvagia.
Oppure erano gigantesche rappresentazioni del cosmo erano atte ad avvicinare l’uomo al cosmo e viceversa: sempre nell’ottica dell’unione degli opposti.
Paradossalmente, anche nel Rinascimento e nel Barocco si può trovare qualcosa di simile, pur nella differenza, alle antichissime forme labirintiche.
Sono i disegni delle piazzeforti, come Palmanova o Sabbioneta, che mostrano una analoga volontà apotropaica di difesa dal nemico, considerato come il maligno da esorcizzare con potenti strutture di pietra.
Oppure sono i modelli, labirintici, delle città utopiche come, ad esempio, la
Città del Sole di Tommaso Campanella o ‘La Nuova Atlantide di Bacone’ che rappresentano un’immagine del cosmo su cui armonizzare la vita degli uomini in vista di una Totalità raggiungibile sulla terra.
Nel primo caso, si presentano con anditi tortuosi, cunicoli sotterranei, casematte per le polveri da sparo e nascoste vie d’uscita per sottrarsi ad assedi.
Nel secondo caso, la pianta circolare ad anelli concentrici o i dedalici collegamenti tra le varie strutture governative e produttive rimandano a una immagine di armonia che si ottiene vivendo il luogo e identificandosi con esso, superare le discrasie della vita usuale che è il negativo da esorcizzare.
Sempre nel Rinascimento e poi nel Barocco si possono trovare altre strutture labirintiche. Sono, tuttavia, strutture per molti aspetti frutto del processo di secolarizzazione i cui scopi sono unicamente estetici: sono l’amabile completamento di quelli che saranno chiamati “luoghi (o ville) di delizia”.
Rispondono alla diffusa pratica di costruire labirinti arborei sia per abbellire ville e castelli, sia per dominare simbolicamente, con la perizia e la tecnica umana, la libertà caotica della natura, piegandola all’ingegno umano.
E così avverrà nel Settecento e ancora nell’Ottocento, che aggiungeranno, a questa impronta estetica, il brivido romantico di un domestico e controllato incontro con l’ignoto, più idoneo a suscitare fremiti amorosi che processi catartici di purificazione o visioni in cui Microcosmo e Macrocosmo s’incontrano.
Va detto, infine, che l’edificazione di labirinti non cessa nell’Ottocento ma continua nel Novecento; famosi sono i labirinti di Vizcaya a Miami, di Silvio Pellico a Moncalieri, di Van Buuren a Bruxelles, di Venere a Granada, solo per citarne alcuni sia come riscoperta e rimaneggiamento di antichi o semidistrutti labirinti sia come vezzo di persone di grandi disponibilità finanziarie per nobilitare una nuova proprietà o per sfruttarla il labirinto come attrattiva turistica.
Ma il labirinto non cessa di esercitare il suo fascino anche nel XXI secolo.
Basta citare, tra i tanti esempi possibili, l’ormai celebre labirinto della Masone (a Fontanellato, Parma) voluto dall’editore Franco Maria Ricci e dedicato a Jorge Luis Borges in nome del suo amore per le forme labirintiche. Il labirinto della Masone, pensato e progettato, oltre che da Franco Maria Ricci, dagli architetti Pier Carlo Bontempi e Davide Dutto, ha una pianta a forma di stella ed è il più grande labirinto al mondo di bambù e, nel suo centro, si trova, oltre a strutture recettivo/turistiche e culturali, una cappella a forma piramidale a ricordo del valore spirituale di ogni centro di labirinto.
Esprime l’amore di Franco Maria Ricci per l’idea del labirinto come luogo di ricerca e d’ incontro dove natura, cultura e mistero possono trovare uno stimolante punto d’incontro.
A questo punto una ultima riflessione, forse più domanda che riflessione, s’impone e riguarda il significato del labirinto per chi si trova a vivere nel Terzo Millennio: lontanissimo dunque sia dai labirinti primordiali che dal mitico labirinto cretese.
La risposta, certo una delle tante possibili ma forse la più credibile, è che il labirinto è una immagine archetipica.
È l’immagine primordiale presente nell’inconscio, sia individuale che collettivo, che esprime la fatica, impervia, che ciascuno deve compiere per raggiungere il centro della propria personalità.
Centro che coincide con il Sé: ossia quella dimensione che non nega l’Io ma, inglobandolo, ne trascende i limiti e la pesantezza delle esperienze individuali. Con l’immagine del percorso labirintico, la psiche inconscia ha fissato il percorso intemporale della vita, fatto d’ improvvise aperture e di altrettanto improvvise chiusure, fatto di ostacoli che si devono continuamente superare: in ogni età dell’esistenza.
Fatto di lotte non tanto contro il mondo esterno ma con quello interiore, in cui si presentano ombre divoranti, come il mitico Minotauro, che devono essere vinte affrontandole e assimilandole e fuggendo da esse rifugiandosi in cunicoli in cui, comunque, saremo raggiunti. Il labirinto ha la funzione archetipica di ricordare a tutti che devono diventare Teseo: che devono diventare eroi.
Ma per diventare eroi nel più profondo significato del termine è necessario il “filo di Arianna”. È necessario per l’uomo l’aiuto della componente femminile e per la donna quello maschile che non si esauriscono certo in un aiuto estraneo ma nel ricorso del proprio “spirito del profondo”.
Ciascuno deve, insomma, trovare dentro di sé il proprio mitico “filo d’Arianna”, deve tranquillamente srotolarlo, tranquillamente fissarlo e incamminarsi nel proprio personale labirinto, cercando le proprie ombre.
Così facendo potrà arrivare al centro e, diventato eroe di sé stesso, ritornare all’uscita per affrontare, nuovamente, l’ultima sfida, quella decisiva, che non dovrà essere più un oscuro labirinto ma una strada di Luce.

Articolo di Claudio Bonvecchio pubblicato sulla rivista ‘Massonicamente n° 21’.

La rivista la trovate da scaricare in maniera completamente gratuita dal sito : https://www.grandeoriente.it/

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