Edna Powell.

Vi propongo, per la sezione dedicata ai racconti, questa breve storia uscita dalla penna di uno scrittore inglese: Andi Hyland.
L’ho tradotta personalmente e quindi, mi scuso per eventuali imprecisioni.
Ho selezionato questo racconto, per la pubblicazione nel blog, perché mi ha colpito per la sua attualità, per l’intensa descrizione della lucida follia della protagonista e per il forte ‘pugno allo stomaco’ che fa rivivere alcuni dubbi di chi, come me, ha vissuto determinate esperienze sulla propria pelle..
Auguro a tutti voi, cari lettori, una buona lettura e un buon fine settimana.

*-*-*

Ieri sera ho visto morire Edna Powell.
Mi sono seduta al suo capezzale e ho tenuto la sua mano sottile mentre il suo respiro rallentava.
Ho osservato i suoi occhi fissi e vitrei e la sua pelle diventare pallida e cerea.
Mi sono sporta in avanti e ho avvicinato l’orecchio alle sue labbra mentre i resti del suo ultimo respiro sussurravano. Il rantolo della morte ne indicava la fine.
Lasciai la sua mano fredda e appoggiai lo stetoscopio sul suo petto per ascoltare un battito cardiaco che sapevo non esserci.
Una vita era stata vissuta.
Mi alzai e diedi un’ultima occhiata alla scena che avevo davanti. Feci un respiro profondo per determinare il da farsi e uscii da dietro la tenda; abbassai la luce per dirigermi verso la postazione di servizio dall’altra parte del corridoio.
Il dottor Bobat rispose dopo quattro squilli.
“Sì?”, disse assonnato.
“Scusi se la sveglio, dottor Bobat. Sono sorella Turner del reparto 3B. Temo che la signora Powell sia appena deceduta”.
“Edna Powell? Davvero?” chiese, sembrando sorpreso. “Pensavo davvero che avrebbe resistito ancora per qualche giorno!”.
“Anch’io”, dissi. “Ho notato che stava avendo forti problemi di respirazione quando l’ho controllata circa mezz’ora fa, così ho aumentato il flusso di ossigeno e mi sono seduta vicino a lei”.
“Che tu sia benedetta, Christine. È stata fortunata ad averti con lei. Non ne fanno più di infermiere come te”.
Sorrisi al suo complimento. “Devo avvisare la famiglia?”.
“Prego. E potrebbe redigere il certificato di morte, lo firmerò domattina durante il giro di visite”.
“Sarà fatto, dottore”.
Ho staccato la chiamata e ho preso la cartella della signora Powell dal cassetto dello schedario contrassegnato con “Letto 12”, proprio mentre Avril tornava dalla sala da tè.
“Che succede?”, mi chiese.
Le dissi della morte della signora Powell. “Che tristezza. Una signora così dolce. Pensavo davvero che sarebbe rimasta con noi ancora qualche giorno”.
Mi passò un modulo di notifica di morte dal primo cassetto.
Non era insolito che le persone morissero durante il nostro turno.
Nel reparto 3B venivano mandati i pazienti che avevano speso, ormai, tutte le loro possibilità. Molti di questi erano pazienti “non rianimabili”, che noi dovevamo curare rendendo confortevoli i loro ultimi giorni.
Edna Powell era una di questi pazienti. Cancro all’intestino in fase terminale.
Presi il telefono e composi il numero del parente più prossimo indicato nella cartella di Edna Powell.
La figlia singhiozzava sommessamente mentre la rassicuravo che sua madre non era rimasta sola durante i suoi ultimi attimi, che era morta serenamente.
“Grazie, sorella Christine. Non ha idea di quanto mi sia di conforto sapere che lei era con lei nei suoi ultimi momenti”.
Aveva scelto di non venire in ospedale, preferendo ricordare sua madre come era stata in vita.
“Lo capisco. Molte famiglie fanno questa scelta”, dissi gentilmente.
Le spiegai che qualcuno l’avrebbe contattata in mattinata con un elenco di pompe funebri e i dettagli per il ritiro del certificato di morte. Ribadii quanto mi dispiaceva per la sua perdita.
“Lei è davvero incredibile”, disse Avril mentre riattaccavo il telefono..
“Cosa vuoi dire?” Dissi, raccogliendo il modulo.
“Solo il modo in cui ti comporti con le persone. Non credo che mi abituerò mai a dire alle persone che un loro familiare è appena morto. Tu lo fai in modo così calmo e impeccabile”.
“Vent’anni di lavoro”, sospirai, e scrissi “11:23 pm” accanto a “ora del decesso”.
Avril avvisò la camera mortuaria, mentre io completavo rapidamente il resto dei dettagli sul modulo.
Quando ebbi finito, Avril andò a controllare gli altri pazienti del reparto, mentre io tornai nella stanza silenziosa di Edna Powell per preparare il suo corpo per l’aldilà.
La sua maschera d’ossigeno giaceva dove l’avevo posizionata sul suo cuscino, in modo che i suoi ultimi respiri non fossero ostacolati.
Staccai l’ossigeno e la sacca per le flebo e rimossi la porta venosa dalla sua mano.
Le mie mani sembravano quasi rosse contro la sua pelle blu traslucida, che era più fredda di prima.
Gettando la maschera, la porta, la sacca per la flebo e il tubo nel contenitore rosso per l’incenerimento, ascoltai il familiare tintinnio dell’attrezzatura che cadeva sulle fiale di medicinali usate.
Aprii un tampone antisettico e cominciai a pulirle il viso e il collo.
Non indossai guanti. Preferivo così. Feci rotolare il suo fragile corpo devastato dal cancro su un fianco e le slacciai il camice d’ospedale. Lavorando velocemente, la pulii davanti e dietro, poi posizionai un tampone assorbente sotto il bacino per raccogliere i liquidi che presto sarebbero defluiti dal suo corpo. Non c’è dignità nella morte.
Infine, posizionai le sue braccia sottili vicino ai fianchi per facilitare il lavoro dei becchini quando sarebbe sopraggiunto il rigor mortis.
Una volta che il cadavere di Edna Powell fu pulito e posizionato, mi chinai sul suo viso e scrutai i suoi occhi senza vita.
“Addio, vecchia signora”. Le chiusi gli occhi con il palmo della mano.
La voce di Avril, proveniente da dietro la tenda, mi fece trasalire.
“Hai bisogno di aiuto?”.
“Tutto fatto”, dissi tirando velocemente il lenzuolo sul viso di Edna Powell.
Il resto del turno trascorse in modo relativamente tranquillo. I portantini portarono Edna Powell all’obitorio.
La signora Johnson aveva bisogno di un sedativo per aiutarla a dormire e la signora Jamaal aveva bisogno di ulteriori antidolorifici, che ho somministrato dall’armadietto del programma sette, documentando il tutto accuratamente nel registro.
Ho fatto la mia pausa tè sul balcone del terzo piano, adiacente al reparto 3B. Mentre guardavo il sole sorgere serenamente sulla città addormentata; pensavo a come, oggi, il mondo sarebbe stato diverso perché c’era una persona in meno.
Alle 7 lasciai Avril per il passaggio di consegne al personale diurno e presi la mia borsa dall’armadietto.
Ho scansionato la mia tessera di accesso e ho preso l’ascensore per il piano terra.
Uscendo dall’ospedale per la via lunga, svoltai a sinistra nel corridoio dove erano esposti i premi per i dipendenti dell’anno.
Mi soffermai a guardare una foto incorniciata di una me più giovane. Suor Christine Turner, RN: Dipendente dell’anno 2018. Ho sorriso a me stessa. È per questo che faccio quello che faccio.
Sull’autobus di ritorno ho guardato fuori dal finestrino e ho osservato le persone che iniziavano la loro giornata.
La città si stava svegliando mentre io stavo per dormire.
Pensai a Edna Powell, che ora dormiva per sempre.
La morte è un concetto strano. Diciamo sempre “riposa in pace”, ma i cari defunti riposano davvero?
La pace non è forse solo la fine della sofferenza? Quando si trattava di Edna Powell, conoscevo la risposta.
Nonostante il lungo turno di lavoro, mi sono sentita rinvigorita pensando al ruolo che avevo avuto nella sua scomparsa.
Avevo tenuto le mani di molte persone mentre esalavano l’ultimo respiro e passavano all’aldilà. Sebbene la maggior parte di loro si aspettasse di morire, nessuno di loro era pronto a farlo.
Ogni famiglia, ogni medico mi ha ringraziato per essere stato accanto al paziente mentre esalava l’ultimo respiro.
In effetti, mi avevano detto che era stata la mia empatia con i pazienti terminali e le loro famiglie a farmi vincere il premio di dipendente dell’anno.
Scesi dall’autobus alla mia fermata e mi incamminai a passo svelto verso il mio appartamento. Non vedevo l’ora di tornare a casa.
Pushkin mi aspettava e si accoccolò con la sua coda soffice intorno alla mia gamba, miagolando mentre mi chiudevo la porta alle spalle.
Accesi il bollitore, gli preparai la colazione e lo guardai mentre se la mangiava.
“Ne ho un altro!” Gli sussurrai.
Andai in camera mia e chiusi le tende. Cantai tra me e me mentre mi toglievo il camice e facevo la doccia.
Dieci minuti dopo mi misi a letto con il mio tè, tirai fuori il cellulare e selezionai “foto”.
Era tutta la sera che aspettavo questo momento.
Aprii la foto più recente, che avevo scattato, e vidi il volto morto di Edna Powell.
La sua bocca era aperta, i suoi occhi senza vita fissavano, senza vedere, il mio schermo.
Passai alla foto precedente. Edna Powell mi fissava, con un’espressione di paura sul volto.
Questa foto era stata scattata subito dopo averle iniettato una dose massiccia di betabloccanti, insieme a una quantità di insulina sufficiente ad abbattere un cavallo.
Avevo bisogno che morisse rapidamente prima che Avril tornasse dalla pausa tè, ma non prima di averle detto che stava per morire e di aver fotografato la sua reazione di orrore.
Avevo persino alzato le luci e tolto la maschera dell’ossigeno per fotografare meglio l’espressione del mio soggetto.
“N-no!”, aveva rantolato debolmente, mentre il cocktail chimico fatale stava già facendo effetto.
Tornai alla foto di Edna morta e la ingrandii con l’indice e il pollice…la ingrandii a tal punto che l’intero schermo era riempito dai suoi occhi morti.
“Presa!” Sussurrai.
Ridacchiai tra me e me mentre facevo avanti e indietro tra Edna morta e Edna viva.
Dopo qualche minuto, spostai entrambe le foto nella cartella in cui avevo conservato le immagini delle altre che avevano preceduto Edna Powell.
Avevo accumulato una bella collezione. Tutte si aspettavano di morire e nessuna di loro aveva richiesto un’autopsia.
Io, una stimata infermiera con vent’anni di esperienza e un premio come dipendente dell’anno, avevo scritto “cause naturali” sui loro certificati di morte. Avevo disposto i loro corpi e fatto le pratiche per l’incenerimento.
Misi il telefono in carica, spensi la luce e mi coricai.
Ieri sera ho ucciso Edna Powell.

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